Usava dei rulli pieni di talco, per cui il grembiule che portava a casa, alla sera, era tutto bianco. E prima di entrare lo scuoteva.
La tragedia dell’amianto all’Olivetti è nelle parole – riferite ai giudici – di un signore che oggi ha 77 anni, Giovanni, di Aglié (Torino), marito di una donna che nel 2005 morì di un mesotelioma pleurico e che una sentenza della Corte d’appello di Torino ha cristallizzato nel ruolo della prima vittima accertata dalla magistratura per l’esposizione a sostanze nocive negli stabilimenti di Ivrea (Torino). Lucia Delaurenti aveva trascorso in Olivetti la gran parte della sua vita professionale. Programmava i tempi per la messa a punto dei pezzi in gomma per insonorizzare le macchine da scrivere. Una mansione delicata che, nel gergo, si chiamava di “allenatrice”.
Il problema era il talco, quel talco che si utilizzava per il montaggio dei frammenti e che, a quanto risulta, conteneva della tremolite, un particolare tipo di amianto. Una polvere biancastra che finiva dappertutto, sul piano di lavoro, nell’ambiente, sui vestiti. La sentenza ha appurato che Lucia ne fu esposta dal 1972 al 1976. Senza mascherina, senza guanti, solo un grembiule in gomma che le serviva per non macchiarsi di colla. E con nessun impianto di aspirazione.
La difesa, al processo, ha giocato la sua carta. Non si può dire che ad uccidere fu il talco perché dal 1976 al 1992 la donna prestò servizio alle officine Ico, dove il tetto conteneva sostanze nocive e dove nel 1986 c’era stato un incendio: una parte del capannone confinante con l’ufficio di Lucia era andata a fuoco, e lei dovette salirvi per una decina di minuti, proprio mentre rimuovevano le macerie, per recuperare dei “dati importanti”.
Vicino alla loro casa, inoltre, c’era un’altra fabbrica con coperture in sostanze nocive. Ma secondo i giudici il legame fra la malattia e il talco è stato accertato. Lucia si ammalò nel 2002. E’ morta a Ivrea il giorno di Capodanno del 2005. Per quantificare l’indennizzo ai familiari ci vorrà una causa civile